Percorsi di ascolto – 6 – Ernesto Esposito: Invoco Dio, ma…
Stanco sono della vita,
griderò amarezza dal mio cuore;
l’innocente è bruciato come paglia.Ombre i nostri giorni,
nube che svanisce.I miei giorni si spengono,
sono polvere;
grido contro la violenza,
invoco Dio, (de profundis)ma non ho risposta.
Era il 2002. Ernesto Esposito, che da molti anni seguiva l’Accademia corale con i suoi preziosi consigli, oltre che assumendone la Presidenza per due anni, mi disse che stava componendo un brano per Soprano, coro e organo su testo di un amico Gesuita, Giovanni Arledler. Mi chiese se fossi disponibile ad eseguirla in prima assoluta con l’Accademia corale di Lecco.

Sapevo perfettamente che la sua musica era tutt’altro che facile, anzi! Ma, d’altro canto, se me lo aveva proposto, significa che riteneva il coro capace di farlo. Si sarebbe reso disponibile a seguirci in tutta la preparazione. Mi trovavo di fronte ad una composizione che richiedeva al coro tantissimi modi assolutamente sconosciuti di espressione vocale; ho impiegato questa terminologia perché, come avrete modo di leggere nell’analisi del brano, non si trattava soltanto di cantare, ma di parlare, gridare, fare glissati con la voce, lasciare talvolta al singolo cantore la scelta di quale nota emettere. Insomma, ero di fronte ad una affascinante sfida. Senza eccessive esitazioni l’ho proposto al coro che, non senza scetticismo, l’ha accolta.
È stato incredibile vedere, man mano che lo studio del brano avanzava, come ciascun cantore abbia vinto la naturale ritrosia e imbarazzo nell’approccio musicale richiesto, continuamente incoraggiati dal compositore. È con grande orgoglio che abbiamo realizzato questa bellissima e, direi, difficilissima composizione.
Vi lascio alla guida all’ascolto.
Stanco sono della vita
In questo lungo primo episodio, Esposito si sofferma ripetutamente sullo stato d’animo della stanchezza di vivere, dapprima con l’introduzione affidata a Soprano e organo dalla sonorità non ancora definita (chiaro il richiamo ai suoni elettronici, realizzati con un’adeguata registrazione dell’organo e con un’emissione vocale richiesta al Soprano, muta, con bocca aperta e rinofaringe chiuso), che trasmettono fin dalla prima nota una senso di grande desolazione, ulteriormente ribadita con la richiesta all’organista, da parte del compositore, di sovrapporre brevemente ogni suono al successivo, dando l’impressione uditiva di qualcosa che si trascina stancamente.
È con grande orgoglio che abbiamo realizzato questa bellissima e, direi, difficilissima composizione.
Quando entra il coro ogni sezione, sottovoce, pronuncia un fonema della frase «sono stanco» ad intonazione approssimativa, e solo qualche battuta dopo le quattro voci si ritrovano sulla parola «vita», una lettera ciascuno, ma è una vita in decadimento, perché alla fine di ogni lettera viene richiesto un glissato discendente verso la regione molto grave di ogni voce.
Dopo questo esordio sentirete che il coro prova a cantare, ma lo fa con un’intonazione approssimativa e trascinando la voce, che non deve essere impostata, da un suono all’altro, come aveva fatto l’organo nell’introduzione, che qui però tace.
L’inquietudine dello stato d’animo è però ancora presente a causa dell’insinuarsi, fra una frase e l’altra, («sono stanco» e «della vita») di effetti vocali ottenuti dalle sole consonanti D L V T (della vita), rimbalzate (le dentali) o glissate (L e V), dall’intonazione approssimativa.
È da rimarcare in tutto il brano che l’organo, oltre ad una presenza timbrica che deve essere particolarmente curata, assolve sempre la funzione di suggeritore e anticipatore delle note del coro, a volte anche solo di una suddivisione. Questo dimostra l’attenzione di Esposito di mettere in condizione il coro di rendere meno problematico il difficile decorso melodico-armonico intonativo. Dopo tutto l’Accademia corale di Lecco, a cui è dedicato il lavoro, è pur sempre un coro composto di cantori non professionisti, anche se al suo interno vi sono fortunatamente numerosi componenti che hanno familiarità con la lettura musicale o hanno diplomi di Conservatorio.
Da questo momento ha inizio un progressivo crescendo e accelerando che porta ad un ispessimento del tessuto accordale (si giunge fino ad agglomerati di 7 suoni), e al raggiungimento del «climax» con il Soprano. Si ascolti con quanta efficacia drammatica Esposito realizza la frase «griderò amarezza»; ogni cantore, liberamente, sempre più forte, si insinua sulla tessitura acuta del soprano, letteralmente «gridando amarezza», seguiti immediatamente dal Soprano e dall’organo.
Le tecniche compositive impiegate per questo episodio sono diverse: suoni senza durata determinata, sia dall’intonazione precisa che approssimativa; battute senza un metro predeterminato, il parlato libero, il glissato.
Da qui l’organo suona per intero la scala-base della composizione, legatissima, ripresa a turno da ogni sezione del coro, che ormai rassegnato, non ha quasi più la forza di gridarla questa amarezza, se non con un ultimo tentativo di sussulto sonoro, giocato contrappuntisticamente fra soprani-contralti e tenori-bassi. Mentre l’organo tace il coro canta per l’ultima volta la parola «amarezza», lettera per lettera, su oscillazioni melodiche di semitono. L’episodio si chiude con una struttura imitativa con le parole «dal mio cuore», in cui il coro è chiamato ad intonare i vari suoni passando dall’emissione senza vibrato ad una molto vibrata in pochissimo tempo.
L’innocente è bruciato come paglia
Episodio aleatorio, vera e propria rappresentazione drammatica del testo.
Ogni cantore, liberamente, declama a piacere, «con sillabazione staccata, da lenta a rapida, e poi da rapida a lenta» il testo, senza tempo di battuta, da piano a forte e diminuendo fino al bisbigliato. In coincidenza con il raggiungimento del forte, il Soprano declama per intero il testo, gridandolo.
Ciò che giungerà con chiarezza all’orecchio dell’ascoltatore sarà l’effetto onomatopeico dello sfrigolìo della paglia che brucia.
Ombre i nostri giorni, nube che svanisce.
I miei giorni si spengono, sono polvere
La sonorità impostata nella prima sezione «Ombre i nostri giorni» è di colore scuro, pianissimo, pronunciando pochissimo. Il tempo è Largo e ben misurato. Viene data molta importanza timbrico-coloristica alla consonante «m» della parola «ombre», che contribuisce così a creare una sonorità quasi rarefatta, impalpabile, dal richiamo debussyano. L’organo raddoppia il coro. Armonie oscillanti prevalentemente di semitono, quindi instabili. Assenza di triadi maggiori e minori, ma solo settime di varie specie e sovrapposizioni dissonanti di seconde minori soprattutto fra bassi e soprani, di non facile intonazione. dove le 8 voci del coro, una dopo l’altra, svaniscono nell’aria. La parola «spengono» viene realizzata attraverso lo sfruttamento della consonante «n», fatta a lungo risuonare e adatta ad ottenere il diminuendo.
L’episodio si chiude con la frase «sono polvere», musicata con l’ormai consueta tecnica del parlato libero.
Grido contro la violenza
Dall’ottavo versetto l’ascoltatore è letteralmente inondato da grida rabbiose del coro in clusters parlati, di varia durata e di altezza approssimativa, dal ritmo libero, in alternanza con gli interventi organistici altrettanto dirompenti. Le prime due enunciazioni sono formulate dal coro in modo compatto e con la medesima direzione intervallare; il terzo e quarto grido di ribellione vedono il coro frammentare la sillabazione, ottenendo così l’effetto della folla che scompostamente manifesta la sua protesta, la quale trova il suo culmine in glissati su 4 sillabe apparentemente casuali («Co», «gri», «vio», la»), ma in realtà le prime di ogni parola, fino ad un ultimo, simultaneo grido sulla parola «violenza». Da qui un lungo accordo dell’organo, da fortissimo a pianissimo, introduce l’ultimo episodio costruito sugli ultimi versetti.
Qui 4 cantori si staccano dal coro ed in lontananza, come provenienti da un altro mondo, intonano a canone alcuni versetti del «De profundis» gregoriano: è un invito alla preghiera alla quale si uniscono il Soprano e l’intero Coro, («invoco Dio»). È di un affascinante stridore la compresenza, nella sillabazione dei testi, dell’elemento melodico medievale quale il canto gregoriano e le più attuali tecniche di emissione vocale come il parlato libero, l’intonazione variabile, il cluster parlato di varia durata e di altezza approssimativa, che, in corrispondenza del raggiungimento dell’apice drammatico dell’invocazione del soprano, vede il coro unirsi ai quattro solisti nella conclusione della citazione gregoriana.
Da qui si assiste alla formazione graduale di un cluster a 12 voci + 2 nel registro grave organistico, che altrettanto gradualmente va spegnendosi su un Re, sul quale il Soprano lamenta con amarezza l’assenza di Dio, «sonoro ma sgraziato».
Qui termina il testo poetico; l’autore aggiunge un Amen che riprende in parte una formula usata in altri suoi brani sacri, come ad uniformare la sua preghiera.
L’ultimo Amen viene intonato dal Coro su una triade di Do # minore, lettera per lettera, sulla quale viene innestato dapprima un Mi#, poi una triade di la minore, prima dall’organo e successivamente dal soprano, le cui ultime tre enunciazioni dell’Amen reiterate sul Mi# sono cantate in diminuendo, con emissione da molto vibrato a senza vibrato. L’ultimo, lunghissimo accordo appena citato, va gradualmente perdendosi: dapprima il Soprano, poi il Coro e da ultimo l’organo. La preghiera ha così percorso tutto lo scibile umano, ma mi sembra di poter affermare che il silenzio di Dio si è rivelato assordante. Dalle volte celesti iniziali l’invocazione è sembrata inabissarsi esprimendo un desolante senso di incompiutezza mista a rassegnazione.
Da «Terzo modo di pregare» (Parafrasi del libro di Giobbe) di Giovanni Arledler
Anno di composizione: 2002 (terminato l’1 novembre)
Dedicato all’Accademia Corale di Lecco
Prima esecuzione assoluta: 6 dicembre 2003 presso la Basilica di San Nicolò di Lecco.
Soprano: Simona Forni
Organista: Franco Catena
Accademia corale di Lecco
Direttore: Antonio Scaioli
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